Belvedere sulla storia
Qualcosa, io credo, l’ho capita: allora è qui il finale di questo primo giro di una storia da lontano. Da dove parte la prossima ruota, io penso di saperlo già.
Antonio Machado, antifranchista spagnolo, scriveva in una poesia : “Caminante, son tus huellas el camino, y nada más; caminante, no hay camino: se hace camino al andar”. Partiti da un lavoratore abbiamo incontrato uno studioso, e da uno studioso una storia e da una storia un senso parziale. Un senso parziale, inteso in senso stretto: un senso di parte.

Il supplì
- Lessons learned, dicono quelli bravi. Prima: cercare di semplificare una complessità è quasi sempre un’arma ideologica, una schematizzazione. Nella storia, le schematizzazioni sono state spesso usate dai gruppi sociali più forti a danno dei più deboli. La complessità, invece, è popolare: el pueblo entiende la poesia.
- Ancora: far crescere il mondo con dosi sempre maggiori di competizione è spesso utile a creare sogni di carta velina, prospettive di miseria e animi frustrati. La competizione è un’ideologia, la cooperazione nasce spontanea.
- Un’altra: la storia è fatta di sviluppi silenziosi, ma gli uomini possono conoscerla. “Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi”, diceva EnricoBerlinguer, “può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità”.
Questo viaggio era iniziato come una voglia fuori tempo massimo di analizzare un fenomeno già venuto a noia – quello delle migrazioni; si è poi evoluta verso un orizzonte di senso diverso. Spesso succede e lo dice anche una poesia, che il cammino si fa camminando. Un cammino nelle ragioni e nei fatti delle migrazioni, in origine il tentativo di dire qualcosa di onesto riguardo una vicenda di cronaca che ha saputo monopolizzare il dibattito pubblico degli ultimi anni, mi sono accorto piano piano che stava diventando un osservatorio, un belvedere personale su di un fenomeno storico. Trovo complesso che qualcuno lo possa prendere per interessante o prioritario, soprattutto date le contingenze dei giorni che viviamo, ma trovo allo stesso modo reale che la storia si faccia nel silenzio, con i tempi lunghi, e che spesso la si possa osservare solo guardandola a valle.
Le condizioni personali, i destini individuali dei migranti africani – quelli che ci hanno dato fastidio, che dovevamo capire se accogliere o respingere, o aiutare a casa loro – inseriti nel contesto che ho provato ad indagare; e quest’ultimo, indagato attraverso le voci di alcuni che abbiamo già incontrato e che ancora incontreremo, mi portano a pensare che, almeno prima della pandemia da Coronavirus, in Africa vi fossero tutti gli ingredienti per l’innesco di una fase progressiva continentale capace di ridisegnarne la mappa, i confini degli stati e lo spirito di un continente; con alcuni segmenti di popolazione posti nelle condizioni di affermarsi come gruppi guida all’interno della dinamica fra i paesi.
I viaggi per terra e per mare di una minoranza della classe media africana, in condizioni di ascesa economica; il tradimento di un sogno visto in televisione e mai esistito nella realtà; la salita al protagonismo africano di una generazione modellata sui valori dell’individualismo e della ricchezza, tutto ciò mi porta a pensare che potremmo osservare nei prossimi decenni cambiamenti sostanziali rispetto all’immobilismo solo formale dei confini, delle certezze e della geografia di un’Africa imparata sui libri di scuola.
Iosif Džugašvili, uno studioso comunista passato alla storia con un altro nome, notava nel suo “Il marxismo e la questione nazionale” che il costrutto sociale noto come “nazione, non è soltanto una categoria storica, ma una categoria storica di un’epoca determinata, l’epoca del capitalismo ascendente”. Questa intuizione, unita alla considerazione mossa da Lenin nel 1913 sul significato storico progressivo dei fenomeni migratori, è in grado di riportarci al punto iniziale dell’indagine, ovvero il tentativo di capire cosa divida un abitante delle periferie delle nostre grandi città sviluppate da un ragazzo che, salito su uno scalcinato autobus pieno di borse, decida di attraversare deserti e mari.
Molto sembra separarli: il lavoratore occidentale ha già introiettato, ha già conosciuto ciò che lega la dinamica dello stato nazione con le forme contemporanee di capitalismo ed è nelle condizioni potenziali di interrogarsi su come superarli entrambi. I confini statali degli africani sono invece righe sulla carta, ci ha ricordato il lavoratore delle commissioni e ci aveva già detto il primo ministro inglese nel 1906: sono “righe disegnate da uomini impegnati a dare via mari e montagne, senza avere la più vaga idea di dove essi potessero trovarsi”.
Varrà la pena allora soffermarsi in futuro su questo e chiedersi: a che punto ciò che è stata per decenni solo una riserva di materie prime e un terreno di caccia per le potenze coloniali si stia avvicinando al punto di detonazione del proprio equilibrio, così artificiale?
Io penso che rifletterne ancora sarà una bella esperienza: forse perché la storia dell’Africa è la nostra storia o, se non altro, per vedere che effetto fa guardare, come se fossimo a teatro o allo stadio, un processo di creazione e mescolanza di comunità e di istituzioni, potendo al contempo contare su tutti gli strumenti che negli anni abbiamo accumulato per ipotizzarne premesse, meccanismi ed esiti. Non so a voi, ma a me interessa parecchio poter avere il quadro ampio su di una dinamica in movimento, provare a coglierne le implicazioni, riuscire a guardare con nettezza come si svolga una storia da lontano.