Proletariato ciclabile
La discussione procedeva davanti a una tazza di caffé – o forse non era caffé, piuttosto qualcosa d’altro, ma non ricordo bene. La luce tiepida di un gennaio solare ci teneva compagnia. Il lavoratore di cui ero ospite, dopo avermi raccontato cosa significasse concretamente lavorare a contatto con i richiedenti asilo, passa a rispondere alla domanda che gli avevo posto.
Solidarietà di classe: è o non è possibile fra occidentali e africani? Questa domanda mi aveva spinto a dialogare con la mia fonte, che fra l’altro è anche un preparato intellettuale comunista. Mentre sui giornali di quei giorni ci si divideva fra “padroni a casa nostra, aiutiamoli a casa loro” e “aprite i porti, welcome refugees”, la mia intenzione era quella di valutare nella pratica la fondatezza di una teoria.
Il supplì
- Wikipedia è sufficiente per appuntarci la definizione: “Per coscienza di classe si intende la presa di coscienza da parte del proletariato della propria condizione di classe sociale. (…) Solo dalla presa di coscienza può scaturire la solidarietà tra i proletari e quindi la rivoluzione proletaria e si può affermare che la coscienza di classe è propedeutica alla rivoluzione proletaria”.
- Un’altra tesi di partenza che volevo verificare era: le barriere fra stati, le frontiere, sono un’arma posticcia di divisione, in parte imposta, in parte sfruttata da chi ha interesse a tenere divisi i lavoratori; ciò per impedire che, riconoscendosi fra simili, quelli si organizzino. Questa formula è certamente troppo semplificata, ma per ora è sufficiente – ci torneremo poi.
- Tra questi concetti e la pratica concreta, mi raccontava il lavoratore con cui dialogo, c’è in effetti molto spazio, il che gli sembrava dipendere soprattutto dalle forti distanze culturali fra gli europei e gli africani, a cui aggiungeva il particolare approccio alla solidarietà fra africani che lui ci racconta di aver osservato. Un posto importante in questa storia avrebbero anche le credenze, le tradizioni e la spiritualità delle popolazioni africane, se confrontate con i corrispondenti europei.
«È giusto dire che la questione delle migrazioni va vista in una prospettiva materialistica: “di classe” direbbero quelli più rigorosi. È anche giusto dire che io, lavoratore del sistema dell’accoglienza, e il migrante con cui mi relaziono dovremmo essere messi nelle condizioni di riconoscerci come alleati, come persone che vivono lo stesso fenomeno di oppressione, insomma: due alleati. È giusto, o meglio sarebbe giusto, perché a oggi sono importanti gli ostacoli: soprattutto per quanto riguarda l’immigrazione più visibile, quella dall’Africa, quella al centro delle cronache, noi dobbiamo riconoscere che le popolazioni africane vivono degli schemi ideologici imponenti, che esistono, che contano e che fanno la differenza.
Per intenderci, ci sono degli africani che quando vanno all’ospedale per avere cure mediche credono sinceramente che stiano violando il comando dell’uomo medicina del villaggio e che dunque una potente maledizione sia pronta ad abbattersi su di loro. In Africa, come ovunque, io sono convinto che esistano sfruttati e sfruttatori; allo stesso tempo è giusto dire che queste differenze non contano o non sono il punto centrale. Sotto il Sahara finisce per contare molto di più di quale etnia sei – perché la persona che vive a tre case di distanza forse è imparentata con quei tipacci che ti hanno rubato la terra trenta anni fa, e da allora sono tuoi nemici giurati. In Africa conta se sei o non sei affiliato al Jihad, se sei mussulmano, cristiano o cos’altro. In questa situazione a me sembra mancare il collante minimo per passare a una fase che definirei politica; fra gli africani vedo inesistenti gli elementi minimi della solidarietà. Ti racconto un episodio.
Come si sa, nelle grandi città si è diffuso ormai da tempo il fenomeno dei rider. Nelle megalopoli soprattutto è una dinamica molto presente; a Milano per esempio, tantissimo. Molti dei rider, come si capisce e si sa, sono africani: costoro lavorano nelle grandi città ma non vivono nelle grandi città, sono pendolari del lavoro e la bicicletta è il loro principale attrezzo, è il bene a cui tengono di più – e questo spiega fra l’altro anche il rilevante traffico, i furti, lo smercio di bici nelle megalopoli dove esse sono molto usate: basta che arrivi un tuo parente dal Ghana in cerca di lavoro, ecco che procurarsi una bici è per te un imperativo essenziale, si tratta di aiutare un tuo parente a lavorare.
Dicevo comunque che il pendolarismo di queste persone è evidente per chi frequenta il trasporto pubblico locale extraurbano, i treni della Trenord in Lombardia. In caso di ritardi, salto corse e altri disguidi, come spesso succede, si vedono decine e decine di persone affollate sulle banchine della stazione con le biciclette e i treni non le possono contenere tutte. Insomma, si scatena la consueta guerra fra poveri, con i pendolari che chiedono spazio e i lavoratori con la bicicletta che ne occupano di considerevole: quel che si vede, però, è che fra gli africani, fra quel lato del conflitto, non c’è solidarietà reciproca. Gli africani già riusciti a salire non aiutano i colleghi rimasti in basso, né sono disposti a mettersi contro i bianchi prendendo le parti dei confratelli africani.
Insomma, l’impressione è che l’Africa sia, anche in maniera un po’ caricaturale, il luogo in cui la povertà e la vita della strada ha trasmesso, quasi imposto degli schemi di individualismo esasperato; se li porta dietro, li incarna quasi chi, scavalcato il mare e vinta la sfida del grande viaggio, si sente poi arrivato nel luogo dove potrà realizzare la vita migliore che sognava: da quando sono arrivate in Italia, la parte più dura del loro viaggio, come si sa, è finita. Stiamo parlando di persone cresciute in una realtà in cui quel che noi chiameremmo “stato brado” è la normalità della vita e delle relazioni e dove la famiglia, anche nella versione allargata e tribale, è l’unità sociale di base. Senza la messa in discussione di questo assetto sociale io non credo che potremo essere nelle condizioni di fare alcun salto di qualità.
In questo senso un altro dato che è giusto mettere in discussione è l’impatto e l’influsso del colonialismo europeo: la principale responsabilità di quell’epoca storica è di aver creato e imposto dei confini posticci, anche geograficamente, che hanno ritardato e in molti casi contraffatto i conflitti africani: ci sono oggi paesi, “stati” – ma spesso questo termine non ha alcun senso sotto il Sahara – dove negli stessi confini si parlano oltre cinquanta fra lingue e dialetti: e in quei paesi, capirsi o non capirsi è in grado di fare tutta la differenza. I gruppi dirigenti, i ceti politici dell’Africa post-coloniale si sono trovati a dover gestire una dinamica sociale nei riguardi della quale sicuramente non sono mai stati e non sono tutt’oggi all’altezza. Non mi sembra strano affermare che, se oggi in Africa ci fossero ancora le potenze coloniali, le condizioni di vita di quella gente potrebbero considerarsi migliori. Né pare per ora che i tanto favoleggiati nuovi attori all’opera in Africa, la Cina di cui molto si parla, siano in grado di provocare chissà che salto di qualità nel breve periodo.
Arrivati a questo punto sarà facile capire che dire “aprite i porti”, “Welcome Refugees”, “prego benvenuti a tutti”, mi pare un atteggiamento prepolitico e di sicuro inadeguato a gestire il fenomeno di cui parliamo. Questo è vero soprattutto se analizziamo la situazione italiana, un paese popolato da cittadini mediamente anziani, che vengono da un’epoca in cui hanno potuto conoscere un mondo senza paura, senza guerre e a bassissimo livello di concorrenza interna ed esterna. Negli anni della cosiddetta “Prima repubblica”, che è un po’ il sogno tradito di quest’Italia contemporanea, poteva succedere che dei terroristi, che lo Stato o chi per loro, mettessero qualche bomba in qualche stazione del centro Italia, ma ad Aosta o a Taranto la vivevano tutto sommato come una vicenda che non li riguardava, oltre la notizia vista al Tg, oltre la normale solidarietà e il dispiacere. Oggi il fenomeno migratorio è qualcosa che ha cambiato la percezione delle persone: “Può succedere a me”, pensano in tanti. Una faccenda che è visibile e quotidiana nelle nostre realtà».
Leggi ancora
Se leggi il sito da mobile, hai già aperto le icone che trovi a destra qui nello schermo? Sono i metacontenuti che danno informazioni di contesto, storie aggiuntive e materiale per inquadrare meglio l’articolo: in ogni puntata sono diversi. Per ora ci trovi una mappa ideale, come un’ambientazione di questo episodio; dal prossimo inizia ad esserci ancora più roba in quegli spazi. Facci caso.