Occuparsi di iniziare processi, più che di possedere spazi. Il tempo è superiore allo spazio. (J.M. Bergoglio)
14 Aprile 2020

What we believe

I fenomeni sovrastrutturali producono effetti strutturanti: lo abbiamo già detto in teoria, ora lo vediamo in pratica. Perché i valori con cui cresce chi sceglie di affrontare il viaggio migrante sono un esito storico; un processo che si può indagare e raccontare.

Due citazioni ci aiutano a percorrere questa puntata; Antonio Labriola, padre del socialismo italiano, diceva che “Le idee non cadono dal cielo”. Friedrich Engels, difendendosi da chi gli diceva che il movimento comunista pretendesse di “calcolare” gli esiti dello spirito umano, ripeteva: sarebbe una pretesa ben stupida. Noi non abbiamo mai detto che le condizioni materiali sono tutto ciò che conta. Noi pensiamo, concludeva, che al momento del dunque sono le condizioni materiali a fare la differenza.

What we believe

Il supplì

  • Dopo la seconda guerra mondiale in Africa iniziano i processi di decolonizzazione e salvo pochissimi casi di auto-liberazione nazionale, quasi sempre guidati da movimenti socialisti, la transizione avviene da uno stato coloniale a uno stato fantoccio che mantiene significativi legami con la ex potenza coloniale.
  • Siccome non pareva abbastanza, negli anni ’80 a queste comunità, da decenni etero-determinante da uno “stato monopolista”, viene inoltre imposto il peso di profonde riforme strutturali: azioni politiche che vedranno il proprio peso scaricato decisamente sulle spalle delle fasce lavoratrici. Si allega bibliografia.
  • Sono queste le condizioni in si formano le generazioni che negli ultimi anni, e il 2020 non farà eccezione, sono state protagoniste della vicenda migratoria. Proviamo a spiegare perché ciò conti molto.

Quella con Osvaldo è stata una delle conversazioni più interessanti della mia esperienza giornalistica, dieci anni di lavoro. Una delle dimostrazioni più lampanti di come uno che cerca risposte e testimonianze, alla fine qualcosa possa trovare. Dopo la sua lunga e godibile spiegazione, un’ora quasi di chiacchierata, sono stato io a raccontare un episodio. Realmente accaduto.

Nella mia personale epica da qualche soldo ci sono due elementi che si intrecciano, Parigi e il treno; l’ultima volta che son tornato dalla città delle Luci ho preso appunto il Thello, il notturno dalla Gare de Lyon a Milano – una volta arrivava fino a Roma, poi l’hanno tolto. Un viaggio di cui avevo anche una punta di timore è diventato un vagone delle meraviglie, con due incontri uno più interessante dell’altro. Per secondo ho conosciuto un egiziano che mi ha raccontato la brutalità dei miliziani oggi al potere al Cairo e la velocità con cui ne era dovuto fuggire, lasciando a casa un figlio disabile che sperava di poter portare via di lì; una storia potente, buona per un altro momento.

Per primo invece ho parlato per ore con un ragazzo africano. A tutt’oggi non ricordo o non so da dove venisse e, a naso, non mi pareva nemmeno una bravissima persona. Era nel treno con vari grossi bagagli e, quando gli ho chiesto che lavoro facesse, si è mantenuto su un tono vago molto sospetto, dicendomi che faceva non so quale commercio internazionale con base a Londra: ma di Africa sembrava saperne molto. Aveva degli occhiali quadrati e modi gentili, mi ha detto varie cose, accennando alla vocazione imperiale dei tedeschi in Europa, ai conflitti tribali nell’Africa subsahariana, fino alle cause delle migrazioni.

Eravamo nel 2017 e l’argomento era di potente attualità, come forse, in vista dell’estate, si appresta a tornare: questa persona mi disse – e l’ho raccontato ad Osvaldo – che fino agli anni ‘80 in Africa la povertà non c’era. Nel senso: c’era eccome, c’era quella che per gli standard occidentali si sarebbe chiamata la povertà, la povertà grave e terribile: ma erano pochi i casi in cui in Africa si morisse di fame. «E’ stato negli anni ‘80», mi ha detto questo passeggero,«che in Africa siamo stati invasi dai televisori. Con loro abbiamo conosciuto l’occidente, le grandi masse africane hanno iniziato a conoscere gli stili di vita occidentali, è in quelle generazioni che è nato il desiderio di partire. Sono questi giovani che trovi oggi sui barchini». Mi è sembrato un racconto evocativo, anche se un po’ grezzo.

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Nel riportarlo ad Osvaldo, non son passati che pochi secondi prima che lui confermasse: «E’ un po’ colorito, ma in sostanza corretto. La stagione a cui fa riferimento è quella dei cosiddetti Piani di Aggiustamento Strutturale». Era un termine che avevo già incontrato nei libri che avevo letto prima dell’incontro con il giovane ricercatore, una sorta di materiale didattico che mi aveva “assegnato” in consultazione il professor Mariano Pavanello.

Fino al 1980 gran parte delle economie degli stati africani postcoloniali era sotto il controllo dello stato – il che significa principalmente di giunte militari o di governi fantoccio, salvo alcune eccezioni prevalentemente legate alle esperienze del socialismo africano, per questo velocemente liquidate. «A venticinque anni dagli anni ‘60, anni dell’indipendenza coloniale”, scrive Paul Sankara, fratello minore del rivoluzionario burkinabé Thomas Sankara – che rincontreremo – «il continente africano è [ancora] immerso in un’atmosfera di conflitti, di siccità e di carestia, disegnato a tavolino e rimasto quasi inalterato dalle potenze coloniali attorno ai suoi pascoli, chiuso. Da una parte c’è la mancanza di volontà politica dei governanti africani docilmente posti sotto il giogo delle multinazionali, il cui unico scopo è quello di appagare i propri interessi, e dall’altra vi sono invece centinaia di milioni di anime che non hanno né una minima copertura sanitaria né accesso ad un sistema educativo».

In quegli anni, la scelta messa innanzi a zone del mondo sostanzialmente protofeudali era la stessa che si era presentata alla Russia zarista nei primi anni del 1900: o l’avventura rivoluzionario o il cammino verso il capitalismo, percorso bastonate – come sempre la storia l’ha visto crearsi: e nonostante gli sforzi di alcuni, si preferì seguire la seconda strada.

Il brusco cambiamento di rotta verso un modello liberista di economia venne proposto dalle nuove destre di Margaret Thatcher e Ronald Reagan e causò la crisi del debito dei paesi del terzo mondo: gli stati africani, prima di allora poco più che protesi economiche dell’occidente sviluppato che esportavano principalmente petrolio a prezzi di assoluta competitività verso le potenze ex dominanti, si videro di colpo le porte dei mercati chiuse e le linee del credito interrotte. Queste comunità, scrive lo studioso socialdemocratico filippino Walden Bello, «si trovarono sul punto di mancare dei fondi necessari per assicurare il pagamento degli interessi dei loro debiti. Allora vennero consigliate loro delle “riforme di struttura”, che avrebbero dovuto assicurare una crescita sostenuta e preservare la stabilità delle loro economie».

A suggerire interventi che oggi definiremmo di decisa austerità furono le istituzioni del cosiddetto Washington Consensus, il Fondo Monetario Internazionale e la WTO: Thomas Sankara, in un discorso tenuto ad Addis Abeba nel 1987 ebbe a definire queste politiche come «tecnicamente assassine». Pino Schirripa, antropologo culturale e africanista dell’università La Sapienza così scrive nel suo “Chiesa, società civile e sviluppo nell’Africa Subsahariana”: «Gli Stati africani videro aggravarsi il proprio debito, già alto a causa degli investimenti nelle infrastrutture compiuti negli anni precedenti, per i quali si erano già indebitati.

La pesante situazione debitoria e la crisi delle esportazioni, che imponeva la necessità di nuovi prestiti, indusse il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale a condizionare nuovi finanziamenti a una radicale ristrutturazione delle economie e degli assetti: i ben noti PAS cui furono soggetti buona parte dei Paesi del continente. Tali piani prevedevano una drastica diminuzione della presenza dello Stato nei settori chiave dell’economia e, più in generale, una forte liberalizzazione e una apertura ai mercati internazionali, anche attraverso la riduzione delle barriere doganali. Si voleva, quindi, favorire lo sviluppo del settore privato a dispetto di quello pubblico; ridurre le tasse; semplificare le regole del mercato e dell’impresa; in breve creare le condizioni per lo sviluppo di una economia di chiaro stampo neoliberista. (…) Si è molto insistito sui costi sociali di questi piani».

Sono più o meno le misure che si sono visti negli stati europei sottoposti a misure di intervento radicale da parte della cosiddetta troika – Grecia, su tutte. Anzi, mi ha incalzato Osvaldo: «L’Africa degli anni ‘80 è stata la prova generale dell’austerità europea»; su questo aggiunge Davide Rossi, biografo di Thomas Sankara: «[Negli anni ‘80] le potenze neocoloniali occidentali reinventano in finte democrazie, sotto la pressione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, le dittature più o meno militari che garantiscono profitti a ristretti gruppi sociali al servizio degli stranieri e la fame per la maggioranza dei cittadini, privati a prezzi irrisori delle materia prime, agricole ed energetiche, delle loro nazioni. L’assurdo democratico si esplicita per intero in Africa in quella stagione».

Qui ancora Schirripa, a conferma: «Se per una minoranza della popolazione i PAS hanno rappresentato un’occasione per accrescere la propria ricchezza, per la maggioranza hanno significato un peggioramento delle condizioni di vita, spesso già precarie. Un numero sempre crescente di persone è stato posto ai margini dei cicli produttivi, perdendo di fatto il controllo sulla propria vita, le possibilità e le capacità di programmare e decidere il proprio destino»; è poi misurabile, come d’altronde pare esserlo sotto certi indicatori per i paesi europei coinvolti in piani simili, che nel medio periodo la cura di cavallo di tagli e austerità riesce a inserire lo stato paziente nel circuito della competizione globale: «Diversi Paesi o regioni del continente hanno cominciato nel primo decennio del XXI secolo a godere gli effetti di una corposa ripresa economica» – così Pierluigi Valsecchi, professore straordinario di Storia e istituzioni dell’Africa presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pavia. Ma a quale prezzo?

Come raccontavamo qualche paragrafo più sopra, dinamiche complesse di natura sociale finiscono alla lunga per avere un effetto strutturante: con questo intendo che fenomeni potenti come quelli dei PAS sono stati nelle condizioni di diventare esperienza – ed esperienza di crescita, esperienza umana – per le giovani generazioni africane: «L’apertura ai mercati internazionali che si opera in quegli anni porta di fatto a una importazione massiccia di merci in questi Paesi», continua lo studioso: «Il contemporaneo impoverimento di buona parte della popolazione fa sì che alla disponibilità di merci non corrisponda una adeguata disponibilità di denaro per acquisirle: i beni di consumo sono presenti in maniera massiccia ma sono preclusi a buona parte della popolazione, e alimentano inoltre un desiderio che non si può soddisfare».

Questo fenomeno, inserito peraltro nella cornice del pentecostalismo religioso fondato sull’interpretazione del vangelo detta “della Prosperità” – una storia altrettanto potente e importante che ci teniamo in tasca per il futuro – è così stata nelle condizioni di plasmare esseri umani che vivono ambizioni profondamente materiali, quei desideri di affermazione e di successo di cui ci aveva parlato Osvaldo Costantini: tramite l’iniezione potente di questi orizzonti valoriali che si è riusciti a «creare individui (…) le cui pratiche siano coerenti con la prospettiva neoliberista» – così, di nuovo, il professor Schirripa.

Prima che questi fenomeni si innescassero, il quadro risultava già limpido a un uomo che l’Africa l’aveva molto amata – Ernesto Guevara de la Serna, intellettuale marxista argentino: «L’Africa rappresenta uno, se non il più importante campo di battaglia contro tutte le forme di sfruttamento che esistono nel mondo – contro l’imperialismo, il colonialismo, e il neocolonialismo», aveva detto il Che ad Algeri nel 1965.

“Those words are candid and tough and they cannot have been easy to hear”

Leggi ancora

  • Se non hai aperto le icone a destra, quelle che qui chiamiamo “metacontenuti” e danno informazioni aggiuntive sul contesto, è normale pensare di non aver capito il titolo.
  • Letture ulteriori:
    • Maurice Dobb, Sviluppo Economico e Paesi sottosviluppati, Editori Riuniti, Italia 1964
    • Democrazia, società civile e sviluppo in Africa Subsahariana, Elisa Vasconi (a.c.d.), Aiep Editore, San Marino 2016